Negli occhi di Chum Mey ho visto il genocidio di migliaia di cambogiani

Chum Mey, 89 anni al museo del genocidio a Phnom Penh
Chum Mey, 89 anni, uno dei pochissimi sopravvissuti al genocidio compiuto dai Khmer rossi

PHNOM PENH (Cambogia) – Negli occhi di Chum Mey, 89 anni, c’è ancora il terrore e la sofferenza di 20mila suoi connazionali cambogiani torturati e uccisi in uno dei genocidi più dimenticati della storia. Il nostro incontro avviene all’interno del terribile ex centro di detenzione S-21 di Tuol Sieng, nella capitale Phnom Penh. Chum Mey è uno dei 7 (sì, sette) sopravvissuti, di cui due ancora in vita, di quel luogo di morte dove ventimila persone furono torturate e poi finite dai Khmer rossi, durante il loro regime durato 3 anni, 8 mesi e 20 giorni interminabili. Dal 1975 al 1979.

Quando da visitatori si entra nel centro di «sicurezza» S-21, adesso Museo del genocidio di Tuol Sleng, si intuisce facilmente che in precedenza era stata una scuola poi trasformata in un infernale luogo di detenzione da cui non si tornava a casa vivi.

L’incontro con Chum Mey avviene quasi per caso nel cortile. Lo vedo lì, seduto in silenzio. Con l’aiuto di alcuni volontari vende a 10 dollari il libro che racconta la sua storia, una storia terribile ma che vuole venga conosciuta, per non dimenticare.

Chum Mey è stato uno dei tanti bambini, figlio di contadini, con molti fratelli e sorelle che vivevano della coltivazione del riso. Quando aveva appena 6 anni è morta sua madre e poco dopo suo padre. Eventi che a quel tempo non erano così rari in Cambogia. Chum Mey cresce stando vicino al suo fratello maggiore, con i monaci impara a leggere e scrivere. Impara a fare il meccanico, ripara di tutto: auto, motorini, trattori, un’abilità che gli salverà la vita.

UCCISO UN QUARTO DELLA POPOLAZIONE

Il 17 aprile 1975, due settimane prima della caduta di Saigon in Vietnam del sud, i Khmer rossi entrano in Phnom Penh accolti dalla popolazione con sorrisi e grandi saluti, inconsapevole di cosa li aspetta. In poco più di 3 anni, uccideranno 1,6 milioni di persone un quarto della popolazione cambogiana, inclusi ragazzi, donne, bambini, neonati, monaci, presunti intellettuali e tanti altri che non avevano alcuna colpa, se non quella di rientrare nella classificazione non gradita. 

I Khmer rossi volevano imporre la dottrina comunista maoista, creando uno stato fatto solo di contadini eliminando ogni presunto “intellettuale” (portare gli occhiali era sufficiente per essere eliminati), distruggendo in modo sistematico nuclei familiari, separando uomini e donne ed educando i bambini ad una totale devozione al regime, pronti ad agire contro i propri genitori. Avevano stabilito un totale isolamento dagli altri Stati, a parte la Cina da cui erano sostenuti. Abolite le banche, la finanza ed il denaro, gli scambi erano basati sul baratto. Abolite tutte le religioni, le cure mediche, il sistema giudiziario. Era vietato possedere ogni oggetto di manifattura occidentale, pena la morte. Le persone vennero spostate nelle campagne a lavorare forzatamente, la capitale Phnom Penh venne evacuata in soli tre giorni.

Si torturava in mille modi. Qualcuno lo si lasciava morire di stenti e fame nei campi di lavoro, altri venivano uccisi in modo sommario con un colpo di bastone o di piccozza in testa.

LE TORTURE DI CHUM MEY

Chum Mey mi racconta di essere stato portato nel campo S-21, non sa neppure lui perché. Torturato per 12 giorni e 12 notti per fargli confessare la sua collaborazione con la CIA, non sapeva neppure cosa fosse. Lo pestarono, gli strapparono un’unghia e lo sottoposero a terribili scosse elettriche. Come tutti gli altri confessò quello che gli dissero di confessare. Qualcuno tra gli aguzzini, si ricordò che era un meccanico e gli chiese se fosse in grado di riparare le macchine da scrivere. Ne avevano diverse fuori uso ed erano fondamentali per registrare le confessioni dei prigionieri. Riesce a farsi prendere come riparatore. Così non lo uccidono subito.

Gli altri prigionieri venivano portati nel centro di Choueng Ek, poco fuori città ed uccisi brutalmente lasciandoli poi cadere in una delle fosse comuni. Visitando il centro, si riconoscono le fosse comuni, l’incredibile quantità di ossa e teschi riesumati dalle fosse, i bastoni, i pezzi di ferro, le piccozze usate per colpirli dietro la testa. Camminando poco più avanti si trova un albero. Colpisce perché sul tronco sono stati appesi tanti cordoncini colorati. Avvicinandosi ulteriormente si capisce il perché. Su quell’albero venivano sbattuti i neonati tenuti per le gambe e poi gettati nella piccola fossa adiacente, spesso davanti alle proprie madri. Questo erano i Khmer rossi, questi erano i metodi attuati sulla base di una presunta ideologia, creata di un gruppo di capi che guidavano il paese circondati dai propri seguaci, la maggior parte giovani o giovanissimi, senza pietà e senza una coscienza.

Uno degli alberi dove venivano uccisi bambini e neonati sbattendoli contro i tronchi
Uno degli alberi dove venivano uccisi bambini e neonati sbattendoli contro i tronchi
L'interno dell'ex campo di sterminio S21 dei Khmer rossi
L’interno dell’ex campo di sterminio S21 dei Khmer rossi a Phnom Pehn

COSÌ UCCISERO MIA MOGLIE E MIO FIGLIO

Chum Mey vive così per due mesi in quell’inferno, riparando macchine da scrivere. Un giorno arriva la notizia che i vietnamiti stanno arrivando. Nel caos generale i guardiani cercano di trasferire tutti i prigionieri fuori città per eliminarli. Casualmente Chum si imbatte in sua moglie, anche lei prigioniera ma in un altro campo, che ha con sé il loro figlio di due mesi. Cercano di fuggire ma inutilmente. Sono rinchiusi in una baracca e durante la notte Chum Mey sente le voci dei soldati Khmer che decidono di ucciderli, la mattina seguente li fanno incolonnare procedendo in fila indiana. Nel suo libro racconta:

«…Prima spararono a mia moglie, che stava camminando con le altre donne». Appena il tempo di sentire la moglie che gli gridava «Corri, ci stanno uccidendo». «Ho sentito mio figlio piangere e successivamente spararono di nuovo, uccidendolo…». A lui non restò che cercare di fuggire lasciando dietro di sé i corpi ormai senza vita di sua moglie e suo figlio. 

LA FINE DI POL POT

Chum Mey nel 2005 insieme a Bou Meng l’altro sopravvissuto, deposero come testimoni davanti al tribunale congiunto delle Nazioni Unite e della Cambogia al processo di Kaing Guek Eav, meglio conosciuto come Duch, il Capo della Prigione di Tuol Sleng, per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e altri capi di accusa. Duch fu condannato a 35 anni di reclusione poi ridotti a 10, ma nel 2010 la corte suprema estese all’ergastolo la sua condanna.

Altri capi e ideologi del regime dei Khmer rossi se la sono cavata meglio. Tra questi Pol Pot, fratello numero uno, a cui la Cina non gli fece mai mancare il sostegno. Anche gli Stati Uniti lo sostennero pur di avversare i vietnamiti. Pare incredibile ma i Khmer rossi ebbero garantito il seggio presso le Nazioni Unite fino al 1991, grazie al sostegno di Cina e USA e di altre nazioni europee. Tanti hanno fatto finta di non vedere e non sapere. Visse benestante per molti anni circondato dai suoi Khmer rossi. Nel 1998 il programma radio La voce dell’America, che Pol Pot ascoltava regolarmente, annunciò che i Khmer rossi avevano accettato di consegnarlo ad un tribunale internazionale. Secondo la testimonianza di sua moglie, morì nel suo letto quella stessa notte, forse suicida forse avvelenato. Non ha mai pagato per le sue orribili colpe.

GENOCIDIO DIMENTICATO

Come non ricordare che molti fecero finta di non vedere e non sapere. Ad esempio nell’estate del 1978, mentre in tutta la Cambogia venivano uccise migliaia di persone inermi ed il regime privava di ogni libertà il popolo cambogiano, una delegazione svedese dell’Associazione Svezia-Cambogia, composta da quattro persone (un infermiere psichiatrico, una studentessa universitaria, una giornalista e uno scrittore di fama, Jan Myrdal, figlio dei premi Nobel Alva e Gunnar Myrdal), visita il paese. Sono tra i pochissimi stranieri a cui viene consentito l’ingresso nel paese dall’avvento della rivoluzione comunista del 1975. Scattano centinaia di fotografie, girano un documentario televisivo dai toni entusiastici, e nel 1979 pubblicano un libro che incensa il nuovo governo del paese asiatico. Durante la loro permanenza, tuttavia, i quattro europei non si accorgono di nulla, e nei loro resoconti non c’è traccia della percezione di essere stati tra i pochi testimoni di un genocidio.

Chum Mey oggi non prova odio verso i suoi aguzzini, non ha desiderio di vendetta. Vuole solo che il ricordo di tutto quello che è successo non si attenui e sparisca. Sente però il dovere di raccontare e onorare il ricordo delle vittime. Un esempio di come un uomo possa superare il proprio dolore, grandissimo, pensando al futuro del proprio popolo che ancora deve fare conti con il proprio passato. Per molto tempo ancora. 

Chum May e Luca Beccastrini
Chum May e Luca Beccastrini a Phnom Penh

Un cartello indica una fossa comune dove furono trovati i corpi nudi di donne e bambini
Un cartello indica una fossa comune dove furono trovati i corpi nudi di donne e bambini

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Luca Beccastrini

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